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Cultura

L’avventura del politico di Julien Freund

L’avventura del politico di Julien Freund

di Aldo La Fata

È appena uscito il volume L’avventura del politico (Edizioni Il Foglio), un libro-intervista del sacerdote-filosofo Charles Blanchet a Julien Freund. L’occasione di questa riedizione in lingua italiana di cui siamo debitori a Carlo Gambescia e Jerónimo Molina, è il centenario della sua nascita.

Nato nel comune francese di Henridorff l’8 gennaio 1921 e morto nel piccolo borgo di Villé, il 10 settembre 1993, Freund venne definito dallo storico delle idee Pierre-André Taguieff, un “liberale-conservatore insoddisfatto”.  Per contro, Carlo Gambescia,  più giustamente, lo riconduce nell’alveo del liberalismo archico, politico,  realista  e perciò triste.   

La sua damnatio memoriae (Gambescia nella sua bella ed esaustiva introduzione parla di “ostracismo epistemico”), per lo meno in Italia dove di lui ci si è occupati poco o niente, è dipesa probabilmente dall’associazione del suo nome a quello di Carl Schmitt che la disinformata vulgata ufficiale vuole compromesso col regime hitleriano.

Consultando alcuni dizionari di politica e di sociologia abbiamo inoltre riscontrato pochissimi riferimenti che lo riguardano e tra i classici del pensiero politico pubblicati dalla benemerita UTET, non è apparso neppure il fondamentale e poderoso (più di ottocento pagine!) L’Essence du politique (1965). Eppure Freund tra gli studiosi del genere non si può certo considerare un “minoritario” e la sua statura intellettuale è certamente pari a quella dei Mosca, Pareto, Ortega y Gasset, ecc.

L’iniziativa editoriale del Foglio inserita nella prestigiosa collana “Biblioteca di scienze politiche e sociali” è dunque da salutare con estrema soddisfazione perché ci consente finalmente di conoscere il pensiero di questo studioso direttamente dalla sua viva voce e di apprezzarne sia la profondità di pensiero e di vedute che la grande umanità. Alla base della sua ricerca intellettuale infatti, come ricorda con dignitosa compostezza ma anche con evidente partecipazione emotiva, ci furono le esperienze umane tragiche e dolorose legate agli eventi del secondo conflitto mondiale (dalla partecipazione alla resistenza alla clandestinità) che da una parte gli forgiarono una tempra d’acciaio, e dall’altra lo dotarono di una straordinaria sensibilità d’animo, tanto da portarlo a dire che “il principio regolatore della vita non sono le idee ma più spesso i sentimenti, l’amore e l’amicizia” (p. 31). Inoltre, il grande tributo nei confronti dell’amata moglie e il riconoscimento dell’importanza fondamentale del loro continuo e fecondo scambio di idee, dice di un uomo al tempo stesso umile, generoso e riconoscente. A nostro giudizio, solo uomini di tal fatta sono capaci di vera intellezione e solo a questi si dovrebbe prestare ascolto.

Ora, la più grande ambizione esistenziale di Freund (di accademiche mai, sebbene  fu cattedratico a Strasburgo, dove ricopri  l’incarico  direttore del  Dipartimento di Sociologia e in seguito di rettore della Facoltà di Scienze sociali) fu quella di essere un Teorico e cioè uno studioso concentrato totalmente sugli aspetti teorici dei problemi, lontano da divagazioni, approssimazioni, generalizzazioni o sconfinamenti di campo. Lo guidò “il maestro di color che sanno”, l’insuperato Aristotele, scoperto tardivamente sulla soglia dei trent’anni, ma che divenne poi il suo maggior filosofo di riferimento. Dalle opere a lui attribuite mutuò il suo principale criterio logico e metodologico: la “dialettica dei contrari”, poi ritrovato nello schema degli “antagonisti” di Max Weber e nel binomio amico-nemico di Carl Schmitt (ma anche in Dostoevskij, nei personaggi tragici, ambivalenti e contraddittori dei suoi romanzi). Una dicotomia per così dire categoriale, che il nostro studioso userà sempre con grande prudenza e che eviterà sempre di ontologizzare, come invece avevano fatto sia i padri delle dottrine dualiste, platonici e manichei, che alcuni dei dissennati figliastri con le loro varianti secolarizzate: i marxisti ad esempio, con l’eterna “lotta di classe” fra proletariato e borghesia, ma anche, e perché no?, gli hitleriani, con l’eterna lotta biologica tra la razza ariana e tutte le altre razze considerate subalterne o addirittura subumane.

Pensare o immaginare che esistano due principi antitetici e irriducibili l’uno all’altro è infatti mancare di senso della realtà; così come è mancare di senso della realtà sognare che sia possibile su questa terra una conciliazione universale (il preoccupante progetto dei “mondialisti” che sembra aver turbato profondamente Freund).

Da qui anche la sua responsabile avversione nei confronti di quelli che concepiscono la politica in chiave escatologica. La finalità del politico, osserva il nostro Autore, deve essere modesta e circoscritta: proteggere la comunità di cui si fa parte dal nemico esterno e promuovere nella misura del possibile una concordia interna (p.42), tutto il resto, verrebbe da dire parafrasando il Vangelo, “viene dal maligno”.

Siamo dunque ben all’interno del perimetro di un discorso ragionevole e plausibile, che nulla ha a che spartire con i massimalismi gnostici o agnostici di destra o di sinistra. Il conservatorismo di Freund quindi, non ha proprio niente di reazionario; il suo profondo legame con la terra natia e con le tradizioni dei padri che egli onora e rispetta, è antropologico e non ideologico; il suo europeismo federalista e regionalista è politico nel senso più ampio del termine e fondamentalmente liberale e antitotalitario.

Passando dal politico al religioso –tema centrale in questa lunga intervista-, Freund dichiara apertis verbis la sua fede cattolica, per quanto essa sia stata una graduale conquista non priva di scetticismi e ottenebramenti. Ma anche qui l’aristotelica “dialettica dei contrari” servì a fargli comprendere che luce e tenebre si alternano e che non può esserci rinascita senza una notte oscura dell’anima e senza un totale annientamento di tutto ciò che si è creduto e pensato di essere. Santa Teresa di Lisieux che il nostro Autore richiama più volte nel suo racconto, con i suoi atroci dubbi sulla fede, docet

Sulla fede (fatto intimo e vitale) che Freund ben distingue dalla “credenza” (fatto razionale transeunte), si osserva che “è una dimensione della persona che non può essere soppressa” e che non ci si arriva con il ragionamento, ma con la Grazia; Grazia senza la quale anche il Sapere non ha senso. Inoltre, “attraverso la fede, la persona capisce che non dipende soltanto dalle proprie capacità” (p. 75).

Concettualmente, per giungere a una prima traccia di Dio, osserva Freund, “si deve partire dalla teologia negativa” (p. 91). “La teologia positiva agisce per comparazione ma in chiave antropologica” (Ibid.). “Attraverso il rigore della negatività ci si eleva progressivamente verso il mistero insondabile di Dio” (Ibid.). Su questo lo studioso ci fa sapere che il suo autore di riferimento è stato Dionigi l’Areopagita che riteneva che teologia negativa (apofatica) e teologia affermativa (catafatica) non si contrapponessero affatto, ma che ogni affermazione e ogni negazione fossero inadeguate all’Uno che appunto è al di là di ogni affermazione e di ogni negazione (è questo il senso teorico della trascendenza di Dio). Ma Freund non vuole essere scambiato per un mistico o per un iniziato, è dichiara onestamente di essere un semplice lettore e fruitore di questo genere di letteratura religiosa che gode della sua intellettuale adesione e approvazione.

Tra i molti temi evocati nella lunga conversazione con Blanchet, tutti invariabilmente di grandissimo interesse, menzioniamo per ultimo quello fondamentale della “decadenza” che occupa quasi tutta la seconda metà del libro e che è stata oggetto di uno studio specifico, il secondo più importante della produzione saggistica di Freund: La Décadence. Histoire sociologique et philosophique d’une catégorie de l’expérience humaine (1984). È un tema sempre attualissimo su cui si concentrarono moltissimi pensatori, i cosiddetti “filosofi della crisi”, da Nietzsche a Spengler, da Simmel a Ortega y Gasset, da Berdyaev a Danilevsky, da Guénon a Evola (ma l’elenco è molto più lungo e lo si può trovare quasi completo nel penetrante e godibile saggio di Carlo Gambescia Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza del 2016). L’analisi di Freund, anche qui fa la differenza rispetto a quasi tutti i succitati autori. D’accordo sulla decadenza come fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità, ma quello che spesso sfugge ai suoi più illustri analisti, vati e profeti, è che esso non si presenta mai in una forma assoluta e anzi può includere al suo interno anche momenti di aggiustamenti, ritorni, rigenerazioni e rinascite. Non solo: in un periodo di declino possono nascere personalità ed esseri eccezionali. Qui Freund sembra evocare, pur senza mai citarlo, il filosofo Karl Jaspers con le sue “personalità decisive della storia”: Socrate in Grecia, Zarathustra o Zoroastro in Persia, Buddha in India, Confucio e Lao-tze in Cina apparse quasi contemporaneamente per risollevare il mondo appunto da una fase di acuta decadenza. Jaspers definì questa fase storica “periodo o era assiale”. La storia universale per lui non è un processo consequenziale e lineare, dove al passato segue il presente e, poi, il futuro, ma un percorso con esperienze e momenti che hanno il valore di un eterno presente e in cui sembra realizzarsi la presenza dell’essere originario. Freund che come osserva Gambescia “ragiona per millenni”, sposa invece la prospettiva delle teorie cicliche, organicistiche e “ondulatorie”, ma accuratamente depurate dalle componenti profetiche, escatologiche e apocalittiche. La conclusione a cui arriva è che la decadenza non è un fenomeno ineluttabile e fatale, ma solo una disavventura, una traversia temporanea che potrebbe anche essere superata, come di fatto accade nella vita individuale. Quindi, non si può escludere la catastrofe, la fine e l’azzeramento di una civiltà, come ad esempio è accaduto agli Aztechi e agli Incas; ma esiste pure la possibilità che un evento del tutto improbabile e imprevedibile lo impedisca e ne interrompa il decorso. E anche qui non mancano a dimostrazione di questa tesi gli esempi storici: si pensi a ciò che è accaduto all’Unione Sovietica: chi poteva prevederne l’implosione senza guerre civili, scontri fratricidi e violenze? E invece il tutto si è risolto quasi senza colpo ferire, con un fenomeno che Freund definisce di “a-rivoluzione”, estraneo alle classiche categorie di “rivoluzione”, “reazione” e “contro-rivoluzione”.

Ci fermiamo qui per non togliere al lettore il gusto della scoperta, ma possiamo garantire che in questo libro si apprendono molte cose di Freund del suo percorso di vita e del suo vero pensiero. Man mano che se ne scorrono le pagine, ci si rende conto di quanto fosse straordinariamente intelligente, di quanto fosse acuta la sua capacità di osservazione della realtà, di quanto fosse esatta, accurata e sistematica la valutazione dei fatti storici e politici, di quanto fosse profonda la conoscenza della natura umana con tutte le sue ambivalenze, e infine, di quanto il suo giudizio fosse in grado di penetrare davvero nell’essenza eterna del politico. C’è dunque da sperare che presto anche in Italia, come è avvenuto e sta avvenendo in Spagna ormai da qualche anno grazie all’impegno serio e qualificato di un Jerónimo Molina,  si comincino a tradurre le opere, soprattutto quelle fondamentali, evitando le raccolte mordi e fuggi, di questo autentico outsider del pensiero politico e sociale. Anche perché dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che Freund non è stato né un cripto-fascista e neppure, come una volta si autodefinì lui stesso per schernire quanti volevano stanarlo politicamente, un “reazionario di sinistra”. Fu invece uno spirito libero e indipendente, che pensava e ragionava con la sua testa e fuori dagli schemi. Un autentico metapolitico insomma.

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